venerdì 23 novembre 2007

Racconto - Scorsoio


“Descrivermi come persona levantina sarebbe errato. Io commercio sì la mia immagine, ma non lo faccio per un tornaconto personale che gonfi le tasche dei miei pantaloni e, perché no, inturgidisca la patta dei medesimi. Sono solo una biblica statua di sale. Mi sono girato, ho visto l’orrore divino di fuoco e fiamme, ho visto le anime ardere al licenzioso desiderio di empietà, ho visto le loro membra allungarsi verso organi lambiti da lingue di fuoco, ho visto orbite ignee scavate da dita roventi e ora eccomi qua, cristallizzato, fragile e sottoposto al battente alito del deserto come un totem sotto foggia di monito”. La giornalista mi guarda vorace. Ha zigomi e mascella forti ed è munita di una bellezza non tanto manifesta nella propria sfrontata perfezione, quanto suadente nella propria sfuggevolezza e opinabilità. A seconda dell’espressione che quel volto indossa e dei chiaroscuri che su di esso la luce intesse, ella assume a tratti fattezze di ninfa, a tratti di satiro, in un altalenante gioco di seduzione e repulsione che me la rende ancor più desiderabile e mi ricorda, in modo doloroso, la mia vita prima di tutto questo. La troupe televisiva alle sue spalle mi adocchia con dissimulato disgusto. Durante i cinque minuti occorsi loro per montare l’attrezzatura tra la porzione di pavimento occupata da scatole di filo interdentale usate e quella su cui languono frammenti di pane raffermo, ora dimora di una colonia d’irrequiete blatte, ho notato che il cameraman, il più giovane del gruppo, è stato vittima di conati piuttosto violenti. Solo il tagliente sguardo della giornalista lo ha riportato all’ordine e lui, ubbidiente, ha domato le sue olfattive repulsioni. Lo stereo propaga nell’etere le sulfuree note di Devil Circle dei Cracow Klezmer Band. Quest’atmosfera da suk mediorientale, tra liquami rappresi e crinali d’eterogenea immondizia, tra screziature di oli essenziali sparsi sulle pareti a creare mappe ancestrali di continenti ancora inviolati, tra declivi di escrementi e mobili in legno pregni di marcescenza, ci porta nel cuore una stilla di paradossale malinconia.

“La prego, continui – mi dice la giornalista muovendo le mani quasi a seguire una danza d’odalisca sulle terse note del violino – Desideriamo capire e lo stesso il pubblico a casa”.

“Il pubblico a casa non è certo lì per capire, desidera solo allungare la cena con un dessert a base di sordido e squallore”

“Sono sicura che preferiscano capire – reclina il capo pensosa – Ma torni alle origini. Perché lei si è rinchiuso, perché nega il mondo e la sua fisicità?”

“Io non sto negando nulla, semplicemente mi tira il culo fare. Voglio dire, non sono qui per propinarvi qualche sofismo del cazzo sui grandi meccanismi che muovono il mondo e le nostre priorità di esseri umani. Niente di tutto questo”. Tossisco leggermente e una bolla di pus posta nella ruga d’espressione tra bocca e naso esplode riversando il suo rancido contenuto sul mio mento, dove si mimetizza alla perfezione tra i sedimenti di passate eruzioni cutanee.

“Cosa vuole dire?” mi incalza lei.

“Che mi tira il culo affrontare le attività quotidiane più comuni. Sto qua, mi nutro passivamente e lascio che tutto si accumuli fino al giorno della mia morte. Più o meno come voi”

“Lei così pensa?”

“Certo. Voi uscite di casa, osate varcare soglie più volte nello stesso giorno e svolgete mansioni e persino vi illudete di portarle a termine. Dopodichè morite senza avere risolto le vostre passioni, senza avere toccato una reale catarsi, senza aver posto conclusione ad alcunché. Per questo, la morte vi sembra un’insensata prospettiva nemmeno prospettabile prima dei 70 anni”.

“E lei ha una soluzione a tutto questo?”. Il fallico microfono che tiene vicino alla mia fetida bocca trema leggermente e vedo le sue pupille allargarsi. Qualcuno in mezzo alla troupe tossisce sommessamente, un altro si gratta il fondoschiena. Resto in silenzio per una decina di secondi, attendendo che una serie di preoccupanti palpitazioni si plachi. Il cane latra alle mie spalle. Sembra insofferente nei confronti di questi intrusi che hanno foraggiato il mio progetto con soldi sufficienti a farmi restare qua dentro almeno per un altro anno, anche se so che mi servirà molto meno tempo. Il robot muove per un istante il suo braccio meccanico. Sembra che quell’arto di metallo e liquidi industriali stia ondeggiando al mio indirizzo.

“Ma che ne so – sbotto eiettando farfalle di saliva sanguinolenta che atterrano sull’avambraccio della giornalista – Più di dirvi di imitarmi, non saprei che fare e ora via dal cazzo”.

La donna lancia uno strillo soffocato. Subito le passano un fazzoletto con cui si monda istericamente. Mi trafigge con occhi di ghiaccio pronti a lanciare innominabili strali. “Potete smontare – dice alla troupe per poi rivolgersi a me – E lei…si prenda pure i nostri soldi, la gente avrà di che divertirsi di fronte a un essere così disgustoso”

“Non più disgustoso del mondo” le rispondo. Accendo la televisione e, mentre escono in fretta, mi accingo a morire a ritmo di palinsesto serale.

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