sabato 20 gennaio 2007

Comets on Fire - Avatar


Le comete in fiamme di cui mi accingo a parlare sono un gruppo di ragazzoti californiani che, poco più di un lustro fa, decise di spendere del tempo assieme per produrre un po' di suoni, sbatacchiare un po' di percussioni e pigiare i tasti di una tastiera tentando di azzeccare qualche accordo. Il risultato fu la creazione di una band indie rock piuttosto mediocre. La notorietà giunse per loro con Blue Catherdral, l'album che sancì la loro predilezione per la psichedelia anni '70. La critica lo elogiò e il loro nome cominciò a rimbalzare di bocca in bocca, fino a raggiungere discreta notorietà nell'ambito underground americano.
Non fatevi ingannare, però (cazzo, ci provano sempre sti stronzi). Quell'album era una discreta puttanatona. Per darvi un'idea: mettete assieme una ragazzetto di 14 anni alle tastiere colto da pruriti prepuberali, un talentuoso chitarrista di 8 anni (ahah!!), un cantante che non canta e un batterista a cui tira il culo ripetere le registrazioni imprecise. Ecco i Comets on Fire di Blue Cathedral. Wow, che figata (pronunciato con voce piatta da automa).
Avatar, l'album da loro pubblicato nel 2006 di cui parlerò qua, non è poi tanto diverso. Il tastierista ha superato lo sconcerto causato dalle prime le polluzioni notturne, il chitarrista ora suona come un mediocre diciottenne (ce la sta facendo, io credo in lui), il cantante canta (mi commuovo) e il batterista...il batterista è uguale...ciò nonostante, Avatar è un bell'album e ora vi spiego il perché.


TECNICA
Poveri Comets on Fire. Suonano un po' da cazzo, ma questo è anche il loro bello. I pezzi sono palesemente registrati in presa diretta, l'esecuzione è perennemente imprecisa, gli strumenti sembrano percossi da mani d'alcolizzato e la qualità del suono è anteguerra. Mi chiedo se abbiano registrato i pezzi nella cantina del cugino di uno dei componenti del gruppo. Mi piacerebbe contattarli per saperlo. E' indubbio, però, che tutta questa sporcizia retrò conferisca all'album una resa analogica che ben si accompagna con il genere molto seventies.
Voto:5,5


CREATIVITA'
L'originalità latita in toto, la ricerca sonora allo stesso modo (inutile dire che i Grateful Dead risultano più arditi), non parliamo della struttura dei pezzi, spesso impostati su un unico giro armonico su cui si alternano le traballanti improvvisazioni dei musicisti (porelli, li sto demolendo), però (però, ebbene sì, però) il quartetto sembra baciato da una musa protettrice che istilla loro l'abilità di comporre belle canzoni. I pezzi fluiscono infatti con tale naturalezza da fare pensare che l'ispirazione che li ha plasmati sia metafisica. Insomma, ballate emotive come Lucifer's Memory e Hatched Upon the Age sono veramente riuscite e viene spontaneo chiedersi perché il cantante non abbia mai dato aria alle corde vocali prima di questo lavoro. Hey amico, sei bravo, cazzo! E le tue melodie ben s'installano sulla griglia sonora dei tuoi sbilenchi compagni di musica! Cosa dici? Vi siete guadagnati il 6 grazie a te? Sti cazzi, amico, direi proprio di sì.
Voto:6


CARISMA
E qua ti voglio. Qua ti voglio. Carisma da vendere, miei cari. Carisma da vendere. Ascoltate Holy Teeth, o l'inizio di Sour Smoke e non potrete non darmi ragione. Tutto già sentito, tutto suonato in modo dozzinale, ma tutto estremamente viscerale. I Comets on Fire si salvano in corner proprio grazie alla loro indiscutibile veracità. Quello che promettono danno e quello che danno è sufficiente così. Se quest'album fosse stato suonato da un collettivo di turnisti e registrato in modo più professionale, non avrebbe reso nemmeno la metà. A volte, le cose VANNO FATTE ALLA CAZZO, ecco. Ascoltate certe parti di Avatar e ditemi se non hanno il classico effetto galvanizzante di quelle colonne sonore da film anni '70 che s'accompagnano alla perfezione con un vecchio macchinone americano e un paio di occhiali a goccia. Grazie per essere un bel gruppo di cazzoni, Comets, vi prego, non studiate su troppi spartiti a casa e non infighettatevi, perché abbiamo ancora bisogno di musicisti come voi. E poi, non vi cominciano a stare sul cazzo i finti minimalisti diplomati al conservatorio? Molto meglio i Comets, che fanno del low-fi...perché di meglio non potrebbero fare, eheh!!
Voto:7,7


CONCLUSIONI
Avatar è rimasto sulla piastra del mio lettore CD per lungo tempo, l'anno scorso, e penso che la ragione risieda all'altezza del mio petto. Non a caso, questo è un album che raccomanderei semplicemente a chi piace il buon rock suonato con il cuore. Se cercate qualcosa di proiettato al futuro o di tecnicamente ricercato, statene lontani, ma se la rauca voce di un racconta storie al sapore di whiskey vi tocca ancora l'anima, non indugiate, potreste scoprire un'ottima band.
Voto:7,2

Tool - 10.000 days


Ve li devo presentare? Vi devo presentare i Tool, ovvero il fenomeno losangelino dell'alternative progressive rock americano? Più che spiegarvi la genesi di una delle band stilisticamente e umanamente più costanti del firmamento prog d'oltreoceano (in più di 15 anni di carriera, la formazione è rimasta pressoché invariata, non fosse per il primo bassista che ha registrato Opiate e Undertow), preferirei concentrarmi sull'ultima fase della sua carriera. Premetto che sono un grande estimatore di Lateralus, a parer mio, l'opera più granitica, matura e completa della band. Se tu, che stai leggendo, sei il "solito fan dei Tool che dopo Aenima non ha più trovato ragioni valide per ascoltarli", allora fai due cose: smetti di leggere e vai ad ascoltare per la bilionesima volta 46&2, magari nella convinzione che il giro di basso sia il più pesissimissimisssimissimo della cazzostoria del progressive rock. Cheppalle. Ecco, se sei invece uno di quelli che ha ascoltato Lateralus lasciandolo decantare in testa negli anni, per arrivare poi alla conclusione che tale album, al contrario di Aenima, potrà essere ascoltato dai nostri figli (quelli appassionati di musica) senza far loro storcere il naso e senza farsi classificare come "l'ennesimo polpettone didascalico anni '90", allora seguimi, perché sarai d'accordo con me nel concludere che, con 10.000 days, i Tool (e non ci son cazzi che tengano) hanno cacato fuori dalla tazza.


TECNICA
Penso che questo sia il disco più tecnico dei Tool, ma la crescita di tasso tecnico non sembra aver giovato alla band. Lo sfoggio di tempi dispari e di ritmiche più serrate non conferisce alle canzoni più pathos e l'estro impresso su nastro dalla formazione si rivela troppo spesso velleitario. Il chitarrista Adam non ha certo raggiunto la notorietà grazie alle sue prodezze chitarristiche, non stiamo nemmeno a prenderci per il fondelli, và. Il problema è che la ricercata povertà delle sue composizioni stavolta lo ingabbia e, quando tenta di dare spessore ai pezzi aggiungendo note e non sentimento (per citare il mio amico Santu), il tutto puzza di escamotage.
Voto: 6


CREATIVITA'
E qua son dolori. Ma proprio dolori intestinali, perché, quando una band si autoplagia, l'effetto "raschiamento del fondo del barile" è inevitabile e chi ascolta (soprattutto dopo un esborso di alcune decine di euro) giustamente s'incazza. 5 anni d'attesa e...ci propinate ste merdine di pezzi? Dai, rigà, eccheccazzo. Massì, massì, Vicarious è caruccia, The Pot anche (a parte i gorgheggi alla Chris Cornell molto 1994 che Maynard tira fuori dal cilindro), ma le sciamaniche nenie tantriche riempi-album non mi va proprio di ciucciarmele, così come le cavalcatone rockettone tanto cattivone stile Rosetta Stoned, che di originale non ha nemmeno il titolo. E' vero, Danny Carey, come sempre, svolge il suo mestiere con sapienza e professionalità ma anche lui manca di quel trasporto, di quella visceralità che aveva fatto grande i Tool nella loro giovinezza. La verità è che tutti invecchiano, ma non tutti mantengono la freschezza creativa di uno Steve Wilson.
Voto:4,5


CARISMA
Se qualcosa resta, è proprio il carisma, anche se stavolta è più caciarone e meno evocativo. Gli ultimi live da palazzetto dello sport ne sono la prova, con la loro ressa sudata, le teste ondeggianti e acritiche, il riverbero imperante che impedisce di distinguere chiaramente i pezzi, un Maynard sempre più distante dal pubblico, gli altri tre invece sempre più compagnoni. Sembra che i Tool siano diventati gli Oasis del prog, ovvero un quartetto di wannabe messia del cazzo che credono di portare luce in una landa di desolazione musicale (che, secondo loro, sarebbe l'attuale scena rock...sé, sti cazzi) e invece compongono musica come i soliti quarantenni che pretendono di avere ancora 20 anni. Davvero un peccato, perché l'aura d'infallibilità della band è stata violata e la magia che la circondava è in parte sparita. Steve, intervieni e puniscili con il prossimo album dei Porcupine Tree, dimostrando come i bravi quarantenni fanno musica (mignoli e indici al cielo).
Voto:6,2


CONCLUSIONI
10.000 days doveva essere l'album della maturità definitiva, l'ultima tappa di un'evoluzione che non si arrestava da Undertow, la catarsi sonora, lo stadio ultimo dell'estetica Tool e invece è una cagatina. Non un disastro, ma di sicuro una palletta di sterco di capra, degna di qualche scettico ascolto e poco più. Se non fosse stato composto dai Tool, sarei stato più clemente, ma che ci volete fare, è diventata una questione personale.
Voto:5

martedì 9 gennaio 2007

The Mars Volta - Frances the Mute


Cedric Bixler Zavala e Omar Rodriguez sono stati voce e chitarra degli At the Drive-in, una band punk sti cazzi post-core che registrò, prima che i suoi membri si dividessero per creare altre due band (I Mars Volta, appunto, e i mediocri Sparta), un ultimo album molto energetico e, per il periodo in cui fu pubblicato, sufficientemente bizzarro e orecchiabile per attrarre schiere di alternativi stanchi del fenomeno nu-metal (che, ringraziando iddio, stava già tramontando) e alimentò il loro latente desiderio di low-fi e graffianti sonorità indie che i monolitici anni '90 avevano lungamente frustrato. In soldoni, gli At the Drive-in furono quello che oggi potrebbero essere gli Enter Shikari, ovvero un manipolo di saltellanti bamboccioni che fanno esaltare gli under 20, strappano qualche espressione di approvazione agli over 20 e lasciano gli over 30 abbastanza indifferenti.
Dal canto loro, i Marzio Volta hanno, a tutt'oggi, realizzato tre album e suonano un progressive imbastardito con latin jazz, punk, indie e altre storie pesissime, insomma, uno di quei zibaldoni musicali post-moderni che fanno gridare al miracolo ogni buon liceale affamato di novità. Desidero partire dal loro secondo lavoro, Frances the Mute, perché è stato il più discusso e, secondo il sottoscritto, resta il loro prodotto più significativo. Ho scritto significativo, non migliore...sì, perché De-Loused in the Comatorium (il loro primo album) è esemplare, è prodotto meglio (anche se in modo più standard) e le canzoni sono cristallini esempi di ineccepibile estro compositivo. Frances offre qualcosa di più. Si comincia.


TECNICA
Allora...diciamo le cose come vanno dette. Omar e Cedric sono due cazzoni talentuosi, ma indubbiamente cazzoni. Omar suona con un pezzo di legno al posto del plettro (e chi dovesse aver sentito il suo album solista non potrà che confermare tale impressione) e Cedric ha dimostrato i suoi limiti plurime volte nei live (e chi dovesse aver sentito un suo live non potrà che conferm...ecc, ecc...). Voglio dire...non lasciatevi ingannare dall'eccezionale talento di John Theodore, il batterista che li ha accompagnati negli album e in quasi tutti i live (non negli ultimi, dato che ha lasciato la band...ahah!! Subisci, vallo a trovare un altro batteraro così...), tantomeno dalla professionalità del bassista che suona in Comatorium (un certo Flea, bah...), ancor meno dall'indiscutibile bravura del tastierista (quello di colore, il suo predecessore non abbiamo fatto in tempo a valutarlo, dato che l'eroina se l'è portato via già nel 2003, porello, dico davvero. Ha partecipato alla composizione di uno degli album migliori degli ultimi 5 anni e non ha fatto in tempo a saperlo, che beffa...). No, non fatevi ingannare. Tecnicamente parlando, Omar e Cedric sono due gran cazzoni. Voglio dire, cazzoni per un ambito prettamente prog. Se andassimo su altri generi, ci troveremmo di fronte a due geni, ma per demerito dei generi in questione (non fatemeli citare, non voglio offendere gli amanti dei frenetici tempi in levare).
Non me la sto tirando, giuro, è che gli assoli di Omar nelle parti improvvisate dell'album (le meno riuscite) sono abbastanza ispirati, ma mancano di sensibilità ed estro nell'uso dello strumento, perché per improvvisare, oh, non ci sono cazzi che tengano, du' scale e qualche esercizio va fatto prima a casa, magari per qualche ora al giorno e per qualche anno. Il suo compagno Cedric ha una resa molto buona su disco, soprattutto in pezzi come Cygnus bla bla bla (sti titoli non li ricordo mai) e The Widow, ma quando il pensiero corre alle esibizioni live facilmente reperibili sulla rete il giudizio scende irrimediabilmente...ugh, brividi...peccato.
Voto: 6,5


CREATIVITA'
Beh, qua andiamo meglio. Chiarisco subito una cosa: Frances the Mute è un concept album che vi farà incazzare, perché alterna momenti solidi e ottimamente strutturati a improvvisazioni di discutibile effetto e interminabili minuti (parliamo di una buona mezzora su un album di 75 minuti circa) di echi, riverberi astrali, synth sconnessi e altre amene stronzate tanto care agli amanti dell'ermetismo noise e ambient. Alla melomane elite intellettuale cui piacciono questo tipo di cose raccomando di saltare le parti più umane dell'album per dedicarsi a una masturbatoria analisi epistemologica della semiologia sonora contenuta in questi lunghi frammenti di nonsense musicale, agli altri (quelli che ancora, mioddio, si emozionano con ballate rock stile Mind's Eye dei Wolfmother) raccomando di premere il tasto forward appena dovessero udire l'ennesimo lamento di sottofondo farsi strada tra una canzone e l'altra. Si fosse trattato di qualche minuto qua e là, li avremmo potuti definire "stacchi atmosferici volti a corroborare il legame tra flusso sonoro e mentale che ogni buon concept album sottende", ma così viene spontaneo chiamarli per quello che sono: 'na gran rottura de cazzo.
Certo, se Frances the Mute fosse stato asciugato, oggi sarebbe più godibile, forse migliore, ma proprio in virtù di questa sua poca digeribilità è molto amato o detestato ed è, a suo modo, più mediatico, a partire dalla sua copertina, che raffigura un uomo dal volto nascosto e alla guida di una macchina d’epoca, fino al suo leitmotif, che a tratti concede (ci sono momenti davvero evocativi, quasi geniali), a tratti toglie (soprattutto la voglia di vivere).
Voto: 7,5


CARISMA
Ecco, per quel che riguarda il carisma, i Marzio Volta n’an menga gninta da imparèr da gnisùn. Per rendersene conto, basta guardare le teste afro dei due fondatori della band, basta ammirare la maestria con cui Cedric fa roteare il microfono sul palco (spesso la cosa che nei live gli riesce meglio), basta contare il numero di volte che Omar rischia di slogarsi le caviglie quando imbraccia la chitarra sul palco e…soprattutto basta ascoltare questo album. Cioè, la parte umana di questo album, dimenticavo…
Ok, il talento del duo è spesso fuori controllo, caotico, quasi barocco nelle sovraincisioni e nell’uso di ammennicoli ed effettistica varia, ma il risultato, laddove viene mantenuto più rigore strutturale, c’è tutto, sia nelle canzoni più progressive e articolate, sia nelle ballate come The Widow, uno di quei pezzi che i melomani intellettuali del cazzo di prima magari snobbano con alzata di ciglio e mano sul girocollo, ma che a noi mortali che ancora ci cibiamo di amore e cicoria non possono che regalare pelli d’oca a fil di pentagramma, soprattutto nei viaggi notturni in macchina verso casa.
Voto: 8


CONCLUSIONI
Gran album. Con tanti se e tanti ma, eppure grande. Le notevoli pesantezze stilistiche lo minano ma non lo affondano, il cazzonismo di Omar e Cedric ne mettono a repentaglio la professionalità, ma non lo decapitano, l’assurda divisione in tracce imposta dai produttori ne rende più difficile la fruizione, ma non ne inficia la godibilità. Insomma, molto è stato fatto per rendere questo album una cagata di piccione, ma l’impegno profuso in tale missione delle forze del male musicale non è bastato. Omar e Cedric (questa volta) si sono quasi completamente salvati da loro stessi e noi li ringraziamo (non per del tutto per Amputechture, ma, per dirla con Michael Ende, questa è un’altra storia).
Voto: 7,5

giovedì 4 gennaio 2007

GUIDA ALLE RECENSIONI

Le recensioni non lasciano spazio a divagazioni filosofiche e contengono, penso, errori di classificazione dei generi musicali (e questo perché sono un pessimo nozionista), ma cercano di esprimere nel modo più oggettivo possibile il mio giudizio.

I 3 tre criteri di giudizio (dall'1 al 10) sono:

TECNICA - il tasso tecnico della band/artista (il ché comprende l'abilità nell'uso dello strumento) e la sapienza e il gusto con cui è speso.

CREATIVITA' - il fattore originalità, innovazione o semplicemente l'estro compositivo degli artisti.

CARISMA - la quantità di emozione o esaltazione infusa nell'ascoltatore, spesso a prescindere dai primi due criteri.

La recensione si apre con alcune note biografiche sulla band/artista e si conclude con un GIUDIZIO GENERALE, che sancisce un voto unico finale e lo motiva. Buona lettura.

Capodanno Moltodanno

L’anno nuovo sbuca dal suo pertugio temporale di prevedibilissima consequenzialità ed ecco che il Capodanno si riconferma ancora una volta l’unica festa davvero sentita da noi occidentali relativisti, variabilmente alcolizzati e agnostici nell’anima. La ragione è semplice. A Capodanno ci si spacca. Messe al bando le rateizzate cene con parenti e la formale condivisione familiare tanto italiana che sancisce la nostra appartenenza a una classe animale sociale, il pensiero corre subito al fatidico countdown, al luogo in cui questo dovrà svolgersi attorno a noi, alla quantità di bevande alcoliche da ingurgitare e al modo migliore per rendere memorabile il tanto atteso evento. Poi tutto accade in un lampo. Come una moviola impazzita, miriadi di bottiglie schizzano spuma verso il cielo, fuochi d’artificio esplodono liberatori nel firmamento, sguardi lascivi s’incontrano e soddisfano fluttuanti appetiti e licenziosi palpeggiamenti si consumano sotto i portici dei centri storici, il tutto in un caleidoscopio orgasmico che investe i poveri stronzi che invece restano lì, vagamente esaltati, ma presto sedati, a osservare tanta umana fregola sfogarsi sul finire dell’anno. E’ proprio allora, all’apice della kermesse, che una riflessione s’insinua tra le sinapsi addormentate da troppa cervogia di chi non rinnova tale trasporto: che il Capodanno sia la festa degli inappagati? Massì, cazzo, forse sì. Dopo un anno tronfio di merda, dopo le amarezze di una pruriginosa primavera allergica, dopo le avversità di un’estate puttana, che come un torchio Gutenberghiano imprime serate copia sulla corteccia dell’ennesimo single affamato d’amore, dopo l’autunno, che, eccheccazzo ammettiamolo, è sempre ricettacolo dei periodi più merdoni, dopo 365 fette temporali intessute dal solito trittico di vecchie meretrici rompicoglioni, ecco, dopo tutta sta pletora di puttanate, vaffanculo tutti, toglietevi dal cazzo e datemi il Capodanno, il mio merdosissimo Capodanno spaccaculo e bruciacervello. Datemi il mio Processo, il mio American Psycho, il mio In Utero, il mio Lateralus, il mio Panopticon, insomma, il mio apice. E' questo ciò che gli astanti trasudano ed è questo che l'osservatore, ai margini del dionisiaco party cittadino a cui, con più o meno coinvolgimento, sa di avere preso parte in passato, percepisce.
E ora? Che ne è dei passati slanci post-adolescenziali? Che il fesso entusiasmo del "tempo dei brufoli" si sia trasformato in proditorio appagamento del "tempo delle rughe"? Che la sindrome di Peter Pan stia abbandonando questo neo-adulto così inconsapevole del prezzo dell'età? Sgomento, sgomento e ancora sgomento e buon compleanno, signor Capodanno.