lunedì 5 novembre 2007

Racconto - Inumanimazione


Sono ore che guido. Le mani abbarbicate al volante, la fronte secca e il naso paonazzo mi rendono inclassificabile. Giuda Libertino è al mio fianco, raggomitolato su sé stesso e alla ricerca della posizione fetale perfetta. I filari si susseguono imperterriti e il paesaggio marchigiano scorre sotto il culo della mia auto, interminabile. Schiere di colline adombrate dall’incombente temporale mi fronteggiano belligeranti e l’autostrada sembra un vorace invertebrato in catatonica attesa e incurante letargia post-moderna. I frenetici globuli rossi di questa colossale arteria secca scorrono filandosi nel giorno del poi e le mie palpebre vacillano sotto il peso della stanchezza che da Bologna mi attanaglia. La virtuale barriera corallina della costa adriatica, meretrice e madre del suo popolo bastardo, si profila sotto cirri trafitti dai vermigli stocchi del sole che saluta questa terra ingrata con radiazioni coobate. Caesar Mandela intona “Jackass, u won’t rape me tonight” con sapiente zelo e Giuda si sveglia all’ennesimo trillo del cantante afroamericano. Si stiracchia con fare felino e si guarda attorno stordito. “Dove siamo? E…che ore sono?”

“Siamo nelle Marche e sono le sette…credo” Mi osserva incerto un momento, per lasciare poi spaziare lo sguardo sui declivi insanguinati che si stagliano alla nostra sinistra. Mi aspetterei il volo frenetico di una strega perdersi nel cielo sozzo d’alba, il galoppo di un unicorno fianco a fianco con il nostro destriero di metallo, il pensieroso cipiglio dell’orso Mantegna alle prese con lo svisceramento di un alveare o la regale minuziosità di Pellagra l’orafo, armato di cimento e metalli preziosi, ma tutto questo è anni luce da qui o forse dentro di noi, relegato in un buio pertugio chiamato “trapasso verso un metafisico e laico mondo di pene o gioie o vie di mezzo”.

“Siamo quasi arrivati, vero?” La voce di Giuda mi giunge tremola. “Sì…manca mezz’ora” La sua faccia è stampigliata sul vetro, asettica seppur deformata. “Quando arriviamo tu dormi che io vado a prendere un qualcosa da mangiare, ok?”

“Come vuoi. In effetti sono a pezzi e la testa…beh, lo sai, è un po’ altrove”. Sbuffa e cambia posizione stringendosi nelle braccia pelose, muovendo la chioma crespa e color seppia. “Lo so bene, lo so. E chissà l’accoglienza…a che ora è?”

“Alle undici, alla chiesa dello…Stilnovo?” Ridacchia e si allunga nel tentativo di dare tregua ai muscoli rattrappiti. “Tu di chiese ne sai, eh?” Riesco a sorridere e tento di ripassare le fasi salienti di una messa. Dunque, io sono cattolico – io sono battezzato – la messa celebra ehm, il rito della…la resurrezione…il dialogo con Dio…? L’entità che bestemmio e poi mi tocco i maroni, non so se avete in mente e poi alzo lo sguardo al cielo e chiedo mentalmente scusa e poi mi dichiaro ateo alle cene dell’università perché fa figo e le ragazze mi osservano con quell’aria vagamente interrogativa e io cerco di non fargli capire che, beh, in fondo in fondo, Gesù lo tengo appeso nei recessi più reconditi di quell’anima così ideologicamente sputtanata che tanto ho negato di avere. E poi, ci sono cose nella vita che ti fanno scendere a compromessi con mister “io non credo si fottano tutti io mi drogo e bevo e mi tiro tre raspe al giorno e mangio merda nei fast food delle multinazionali, sono uno squalo che divora e non da, divora e non da…”

Mani che scuotono. Mani che MI scuotono. Le mani DI GIUDA che MI scuotono. Mi sveglio di soprassalto, un Archimede ridesto nella vasca da bagno. Eureka. Raddrizzo il volante e torno nella corsia centrale. L’auto, poco prima alla mercé di mister Orfeo Bragaloni, ritrova controllo. Giuda mi fissa incredulo e la sua mascella da centurione schiocca ritmica, quasi a tempo di Caesar Mandela, il negro che al momento bercia nelle mia orecchie “U woke up, u finally woke uuuuuuuuup…”. “Ti eri abbioccato dibbrutto, cazzo che strizza mi hai fatto prendere!” Scuoto la testa e mi impongo una posizione la più scomoda possibile. “Che ti aspettavi, mongolo…se avessi la patente tutto questo non si sarebbe verificato. Forse per i sessantadue anni arriverà?” Lo scorgo solo con la cosa dell’occhio ma di sicuro ha alzato gli occhi e sta proferendo labiali offensivi. Circa l’effettiva esistenza di un legame fra e me e lui mi sono interrogato spesso e ho ottenuto solo risposte ottenebranti, vaticini di dubbio gusto e utilità. Siamo capitati al mondo nello stesso tempo e nello stesso luogo e la contingenza ci ha uniti nel tentativo di sentirci meno soli. Succede fra amanti, figurarsi fra provinciali compagni di bagordi. E’ un rollio in perenne ascesa e presto ci farà cadere dall’amaca chiamata apatia su cui abbiamo parcheggiato i nostri culi da universitari squattrinati e senza prospettive sentimentali e lavorative. Presto il contado chiamato rimorso ci assesterà una secca pedata nel fondoschiena e ci manderà a lavorare la nuda terra riarsa dal sole per tre carlini e un tozzo di pane. Presto madame Tempo buttato verrà a riscuotere ciò che le spetta e senza compassionevoli liturgie applicherà il protocollo mai scritto ma ben rodato del riciclaggio del cazzone di turno. Ed essere felici, allora sì, diventerà dannatamente mortificante.

Scorgo l’uscita per Pesaro e la imbocco con l’atroce dubbio che sia quella sbagliata. Giuda dorme di nuovo. E’ bello alternarsi. Io alla guida, lui alla navigazione, io alla guida, lui nel mondo dei sogni, io alla guida, lui al cesso degli Autogrill, io alla guida, lui alle prese con l’autoradio. E fuori dall’auto sembra che la dinamica debba ripetersi, sconvolgendo le mie convinzioni di essere una persona versatile e trasformista. Estraggo una caccola sanguinolenta dalla narice destra e la spiaccico sui pantaloni nuovi del mio amico. Quella rimane lì, perplessa e informe e io mi compiaccio. Questa non ve l’aspettavate, cani.

Percorro alcune strade nazionali mai viste prima, seguito dalle nubi gravide che hanno stampigliato sopra in chiaroscuro “rottura di cazzo in arrivo per voi fottuti bipedi terrestri”. Forse mi hanno visto leggere, perché rade gocce cominciano a costellare il parabrezza e le vedo scorrere lasciando ragnatele di scie umide. Estraggo Mandela dallo stereo con stizza e getto il CD sul sedile posteriore. Inserisco i Goblin e l’atmosfera si tinge di Argento filtrato dal bigio chiarore del cielo coperto. Il nostro ingresso a Pesaro è quantomai anonimo, dato che non c’è anima viva a testimoniare la nostra venuta e le case non emanano nulla dei ricordi dell’estate scorsa. Mi sembra di essere in un altro luogo, percorso da ombre inquiete e smemorate, un non posto in cui fotogrammi senza palpebre, mescolati a mo’ di zuppa d’oblio e per questo vividi e dolorosi, si susseguono in un montaggio sbagliato; sì, perché quelle immagini non mi appartengono, non le voglio più dentro di me, mi violano, mi strappano alla mia verginità catartica. Sono già logoro seppur giovane, perché non ho più appuntamenti a cui valga la pena di arrivare puntuale, non ho più promesse da mantenere, tanto fa lo stesso per me e per chi mi sta attorno. E poi questo impegno, ma chi se lo voleva cagare. E infatti siamo in fottuto anticipo. Volete che ve lo dica? Se non fossimo partiti nottetempo, sbronzi ed ebbri di coca, qua non ci saremmo mai venuti e questo dramma forse non esisterebbe e tutto sarebbe ancora come l’anno passato. Forse chiudendo gli occhi e andando a ritroso, a braccia spalancate e con il capo ripiegato all’indietro, sull’autostrada per Modena, lasciandosi prendere a sferzate dall’aria assassina e sperando che mi purghi alla grande, forse Vanessa tornerebbe a vivere e forse non sarebbe troppo tardi e potrei farlo seduta stante, senza avvertire Giuda, ora preda del sonno, e il suo menefreghismo così ben ascoso.

Accosto quasi alla cieca e posteggio in uno spiazzo sgombro con il fiato corto e il cuore che impazza indomito nel suo angolino di torace torturato. Adagio il capo sul volante e trattengo le lacrime, me le deglutisco tutte, una alla volta, conservo i liquidi. Anche perché ora riuscirei a piangere solo vodka frammista agli umori vaginali della troia che abbiamo caricato ieri sera dopo la discoteca. Mi sento e sono sporco, di terra, mascara e birra e la cravatta lo testimonia impietosa, un vergognoso vessillo portato con poca dignità. Alzo lo sguardo dopo quelli che mi paiono pochi minuti. Le ombre sono cambiate attorno. L’albero che prima si proiettava sulla nostra auto, ora disegna più distintamente la sua sagoma sull’asfalto e vedo gente che si avvicenda presso un gabbiotto di plexiglas e metallo che ricorda la pacchiana tecnologia dei telefilm anni 60. Tutti estraggono e inseriscono carrelli vuoti, ne spingono altri colmi, chi più chi meno goffamente, presso le auto che ora ghermiscono questo formicaio di vetroresina arroventato del sole che si fa beffa di noi dal varco apertosi tra le mura di cirri sodomiti. Giuda russa sommessamente e sembra non curarsi del bambino che lo osserva a un metro di distanza, da dietro il vetro. Sua madre sta caricando la spesa nel bagagliaio e sembra non ravvisarci. Il bamboccio invece fissa Giuda con quel cipiglio involontariamente sfrontato che solo i cuccioli d’uomo sotto i dieci anni e particolarmente rompicoglioni riescono a tenerti appiccicato addosso per istanti interminabili. Si accorge che lo sto osservando a mia volta e un moto di cagarella attraversa lo stronzetto. Non sai che mamma non apprezzerebbe? Lo sa, lo sa, lo leggo nei suoi occhietti e nel broncetto da avvocato. Sto pisciasotto si scoperà un sacco di fighe, oh sì, oh sì, lo vedo nel suo DNA e dal sedere della genitrice che proprio ora capeggia all’altezza del mio sguardo malizioso. Una mano da trentacinquenne ben tenuta guida il bambino con grazia e lo fa accomodare sul sedile posteriore. Quello mi tiene lo sguardo puntato nelle iridi e quasi mi guardassi allo specchio mi ravvio una ciocca di capelli. Il bamboccio mi spiazza e fa la stessa cosa e proprio nell’istante in cui l’auto parte celandomelo alla vista, mi pare di scorgere l’ombra del sorriso beffardo con cui quel bastardello irretirà un sacco di coetanee e con una smorfia rasente sarcasmo mi chiedo come cazzo potevo essere alla sua età. Sbadiglio sonoramente e stiro gambe e braccia per un po’, in attesa che i crampi rinuncino ai loro fetentissimi agguati. La mia faccia è un campionario di umori untuosi di cui desidero liberarmi al più presto. Scuoto leggermente il mio amico, che tra lamenti e versi inarticolati si desta e si raddrizza esordendo con uno sguardo tra il tardo e l’infelice. Flette il collo nel tentativo di fare una panoramica del posto e si schiarisce la voce, ancora arrochita dalle ore di sonno. “Dove siamo?” Io mi sto pigramente pulendo le unghie. “Nel parcheggio di un supermercato, a Pesaro”

“Fantastico! Grande Lore! Siamo già arrivati.”

“Già…ascolta…”

“No, no, senti…” Apre la portiera ed esce con insperata prontezza. “Vado a prendere da mangiare, tu resta qui.” Guarda l’orologio e un’ondata d’ansia lo investe stordendomi. “Occazzo!! E’ tardi! Arrivo subito…dobbiamo essere là tra un’ora!” Lo vedo correre via con la solita andatura sgraziata da canide in calore e dopo un po’ distolgo lo sguardo, turbato dall’imminenza del nostro appuntamento.

Quando giungiamo presso la chiesa ho gli Isis che pulsano nelle orecchie e delineano scenari apocalittici nel mio immaginario riquadro visivo. Giuda sgranocchia svogliato delle romelline e a tratti rovista nella spesa per pescare una lattina di succo d’ananas. Fermo il mezzo nello spiazzo antistante e abbasso il volume in fretta, dato che il mio passeggero spalanca la portiera appena ci fermiamo. Scendiamo e adocchiamo subito il drappello di persone vicino all’entrata della parrocchia. Osservo Giuda un momento per poi indirizzargli un’occhiata carica di panico. Siamo ridotti uno schifo, spettinati, lordi di liquidi alcolici e con le camicie simili a cartine geografiche. Pare che mani d’esploratore abbiano vergato dozzinali mappe di continenti sconosciuti sui nostri vestiti e non mi sorprende che la cosa non turbi il mio amico, troppo preso a leccarsi il sale delle arachidi dalle dita. Alza gli occhi su di me e risponde al mio sguardo con fare perplesso. “Che c’è? Cosa c’è da guardare?” Io scuoto il capo. “Siamo dellemmerde e tu neanche te ne accorgi. Datti un tono, stiamo andando a un funerale.” Giuda si piega indietro, compie qualche passo scoordinato e si appoggia all’auto ridendo. “Questa è bella…ah sì, questa è bella, Lori…” Si fa serio e mi fissa in posizione scomposta. “Cazzo ti credevi? Che dopo la serata di ieri saremmo arrivati qua con un briciolo di dignità ancora incollato addosso?” Abbasso lo sguardo imbarazzato e fisso le punte delle mie scarpe, improvvisamente così attraenti, lisce e perfette. Giuda rincara la dose. “Non…non pensare che questo sia un gioco per me, che io…” si passa una mano sulla faccia bovina e si massaggia le guance ispide. “…io prenda ogni cosa alla cazzo. Andiamo, facciamoci sta figura dimmerda ma ti garantisco che sarebbe stato peggio se non ci fossimo proprio presentati.”

“Ho i miei dubbi…ho idea che stiamo facendo una cazzata colossale.” Il mio amico alza il volto al cielo e per un istante assume le sembianze di un Cristo. “Avanti, Lori.” Mi viene incontro e mi cinge le spalle con un braccio sudaticcio che probabilmente lascerà un alone sulla mia giacca. “Mal comune mezzo gaudio, no? Saremo in due a essere delle merdazze, là dentro.” Avvicina il muso alla mia faccia e se la ridacchia sommessamente. Io sogghigno e cerco di crearmi un’immagine mentale della situazione in cui mi troverò tra poco ma la sola idea è sufficiente a spaurire ogni ipotesi e lascio la mente fluttuare nel suo brodo primordiale d’imbecillità adolescenziale. Mi libero dalla stretta di Giuda, mi avvio con le mani in tasca verso la chiesa e lui mi tampina alle terga trotterellando goffamente. Non oso sondare il gruppo di convenuti, anche solo furtivamente, alla ricerca di eventuali conoscenti. Raggiungiamo la porta spalancata e assediata da informi corone di fiori emananti afrori da soap opera e lì ci blocchiamo. Sento una mano appoggiarsi sulla mia spalla e solo allora alzo la testa. E’ Jessica, una ragazza con cui uscivamo anni prima, lì a Pesaro. E’ ingrassata alla grande e il suo viso a mongolfiera è annaffiato da copiose lacrime. Me la trovo addosso prima di riuscire a proferir parola e non capisco quello che mi dice, stapputtana. Mi inonda le orecchie di singulti e io comincio a sciogliermi, sta scorza d’uomo che dell’Africa nera si fece baffo nel mese del mai. La stringo a mia volta e comincio a piangere pure io. “Lori…Lori…mi…spiace…” Avverto le sue parole e mi chiedo di cosa si dispiaccia. Di cosa ti dispiaci, latrina, Perdio! Vanessa non era niente, nulla, capisci? Non mi senti? Smettila! Resto abbarbicato alla grassona e mi accorgo di averne bisogno perché continuo a singhiozzare a ruota libera e quest’idrante oculare che ho tenuto cocciutamente serrato per giorni esplode in un’iridescente arcobaleno di liquide evoluzioni trafitte da unghie laccate di viola, massì, quelle di Vanessa. Quando mi teneva le mani e mi diceva sei il mio schiavetto e mi pareva di indossare la livrea dei carcerati e di vedere Foucault penetrarmi con sguardo indagatore dall’alto del panopticon, dito puntato e manganello alla mano, pronto per l’ennesima seduta d’ergastolana eresia. Caesar Mandela aveva sempre avuto da ridire, soprattutto quando facevo sesso con lei in auto e tra le unghie viola spuntavano le liriche del negro e mi coglievano alle spalle con frasi pungenti del tipo your love ends tonight, your lust lasts forever, foooooreveeeer e io mi vedevo costretto a venire spruzzando odio in sede d’ufficio.

Il resto è già passato. E’ già passato il penoso incontro con la madre, accompagnata dal suo dolore, nascosto dietro lenti affumicate. E’ già passata la messa. Ed è già passato il feretro. Soprattutto quello. Non è passato il senso di colpa. Ed essere venuto qui mi sembra ora così pretestuoso. La gente sta lasciando la chiesa con mani giunte e capo chino. Esco e cerco di evitare Jessica e tutta la combriccola di suoi amici. Scorgo Giuseppe, che l’anno scorso si era sbronzato con una bottiglia di Pampero rubata da lui stesso all’Esselunga sotto casa. Susanna, che teneva un gatto bastardissimo in casa, sempre pronto a tendere agguati agli ospiti, per poi rifugiarsi in qualche introvabile pertugio. Ruggero, lo stronzo che non mi aveva dato i dieci euro per la grigliata organizzata in spiaggia. Non voglio nemmeno sfiorarli, tanto mi sento vulnerabile. Forse uno di loro mi ha avvistato, nonostante stia tentando di mescolarmi a un gruppo di gente di mezza età. Mi trovo davanti un uomo, alto e robusto, con dei lineamenti incredibilmente simili a quelli di Vanessa. Dev’essere il padre. Non l’avevo mai visto e un moto di impotenza mi coglie con vampate di calore. La vista mi si annebbia e altre lacrime annaffiano gli occhi già gonfi. Stringo le spalle e tento malamente di trattenere i singhiozzi. Sono l’essere più inutile e fuori posto di questo pianeta. L’uomo mi osserva interdetto, dato che sono incapace di spostarmi per liberargli la strada. Credo abbia capito. Vedo che anche lui piange, in silenzio, con dignità, però. Mette una mano poderosa sul colletto della mia giacca, lo sistema e mi dà un buffetto sulla guancia. Provo una vergogna nuova, acuta, mai sperimentata prima e il senso di pochezza che mi pervade prevarica ogni altra sensazione, persino la commozione. Serro le palpebre forte, quasi volessi farmi scoppiare questi dannati occhi che si ostinano a mostrarmi che pezzente sono. Sento passi lenti attorno a me, passi di piedi racchiusi in scarpe costose, di marca, con tacchi alti, solenni, di cuoio. Inspiro forte e spalanco le palpebre in fretta, rizzando il collo come uno studente colto in flagrante. Nel parcheggio di fronte alla chiesa non c’è più nessuno. Solo un sozzo e vizioso prodotto tipo di blandezza esistenziale che se ne sta fermo con i pugni serrati e lo sguardo tra l’accigliato e il colpevole. Giro su me stesso, guardando in ogni direzione ma non trovo nessuno a compatirmi, nessuno che abbia anche solo uno sguardo di rimprovero da regalarmi. Sono riuscito nella mia capricciosa e vile missione di passare inosservato ai più e ora mi mordo le labbra alla ricerca del mio sangue, l’unico che possa pagare questo debito di umanità che ho verso chiunque abbia incontrato nella mia vita. Mi dirigo verso l’auto e mi seggo al posto del guidatore, tenendo i piedi appoggiati sul selciato. Mi tolgo giacca e cravatta, slaccio i polsini e mi arrotolo le maniche per trovare tregua al caldo che sta aumentando sempre più. Uno squarcio tremendo nel cielo lascia filtrare i raggi solari, che mi trafiggono impalandomi al sedile. Mi chiedo dove sia Giuda, quel pusillanime bastardo che mi ha abbandonato nel momento del bisogno, sempre pronto a pontificare massime sulla fratellanza d’intenti, per poi sparire sgattaiolando via da bravo Iscariota quale è. Mi lascio guidare dall’intuito e, adocchiato un bar poco distante, su una via adiacente il piazzale, mi decido ad alzarmi e fare due passi in quella direzione. I dubbi vengono subito fugati, dato che trovo Giuda appollaiato presso il bancone, con un amaro davanti al muso peloso e un pacchetto di Winston rosse in mano. Il locale è un vero schifo, odoroso di sigarette scadenti, alitosi e vecchi elenchi telefonici. Una vetusta cabina di metallo è piazzata alla bene meglio in un angolo. Dentro sono pressati un uomo e una donna arabi, alle prese con una telefonata molto impegnativa. Berciano gesticolando convulsamente e si strappano la cornetta di mano a vicenda. Il mobilio, tutto risalente agli anni sessanta, ispira repulsione estetica ma, allo stesso tempo, una dolorosa familiarità fisica. Un drappello di vecchi, appostati a un tavolo di colore non ben identificato, gioca a carte e monopolizza l’attenzione degli altri clienti con versi in dialetto stretto. Un tipo dall’aria cirrotica, poco distante dal frigo delle birre in bottiglia e con indosso una coppola sformata, sorseggia quello che pare un limoncino di bassa qualità e mi fissa con arreso disinteresse per la vita. Giuda gioca con una Winston, passandola tra le dita, e poi l’accende. Fissa l’orologio sopra le mensole dei superalcolici e sbuffa sommessamente, guardando il culo della barista quando si china a prendere una bottiglia dal frigo. E’ una bella biondina sui vent’anni ma sono accecato dall’odio e non mi soffermo a osservarla.

“Brutto stronzo!” Il mio cosiddetto amico si gira con occhi sgranati e quasi fa cadere l’amaro dal bancone con il gomito. “Ehi!” Sorride imbarazzato. “Qual buon vento, Lori!” Mi seggo di fianco a lui e lo fisso, incazzato più che mai. “Sei sparito. E questo ti classifica come stronzo. Lo sai, vero?”

Spalanca le braccia e alza gli occhi con vittimismo da professionista. “Ossignore! Cazzo dovevo fare!? Pensavo preferissi restare solo.”

“Come no!? E quelle stronzate sul mal comune, mezzo gaudio?”

“Cose del passato, Lori.”

“Del passato un cazzo!” Mi accorgo di avere alzato troppo la voce. I vecchi interrompono per un attimo le loro serrate disquisizioni sulle tattiche migliori per vincere e si girano affamati di gossip. L’uomo arabo si sporge dalla cabina stizzito. “Silensio, per favore, ammigu!” Mi fissa troppo a lungo e il mio sguardo non deve essere amichevole perché sembra contrariarsi ancor di più e rientra tenendomi gli occhi incollati addosso.

“Mi hai tradito e queste sono cose del presente, mio caro!” Addito Giuda e lui si scosta irritato.

“Io non ho proprio tradito nessuno. Vanessa quasi non la conoscevo, Lori! Cazzo rompi! Mica me la scopavo io!”

Questi sono momenti in cui tutto diventa distante. Immagino che chiunque compia gesti estremi viva la cosa con chirurgico distacco e sorretto da ettolitri di adrenalina che affoga, almeno momentaneamente, ogni tentennamento e rimorso. E scommetto che, mentre compie l’atto in questione, l’unico suo pensiero sia: “Non sono un violento, sono solo una persona normale che gli eventi hanno costretto a fare ciò che sta facendo”. La normalità deviata da un’ingiuriosa contingenza è la panacea di tutti i sensi di colpa più atroci. E io non faccio eccezione alla regola. Mentre spingo Giuda giù dallo sgabello e lo spedisco carponi sul pavimento sto forse pensando la stessa cosa. Mentre la mia mano lo colpisce ferocemente al volto e avverto il duro del suo zigomo e un dolore lancinante alle nocche, forse, ma solo forse, il mio cervello elabora velocemente le stesse panacee. Mentre esco correndo dal bar e mi do alla macchia ansimando come un criminale con i brigadieri alle terga, il mio ammasso di neuroni impazziti si inseguono isterici alla ricerca di una giustificazione a ciò che ho appena fatto. Con un’ultima fugace occhiata scorgo i due arabi uscire increduli dalla cabina, i vecchi gridarmi dietro frasi disarticolate dimenando le loro enormi mani callose e lo sbronzone vicino al frigo ridersela sotto i baffi. Lo stronzo deve aver frequentato questo cesso di posto per vent’anni solo in previsione di questo momento.

Ora sto correndo per la strada, a perdifiato. Sono circondato da bassi edifici contornati da portici stretti, tutti abbastanza nuovi. Non mi guardo alle spalle e mi auguro di non trovarmi più di fronte Giuda, quel Caino, quel salasso divoratore di buone intenzioni. Non mi fermo per diversi minuti. Vedo un negozio di musica, sulla destra e mi avvicino, rallentando con i gomiti alti, la fronte sudata e un’espressione sconvolta. Mi duole lo stomaco e la schiena, le gambe sono indolenzite e mi gira la testa. Tutto il bere e lo sniffare di ieri notte mi ha ridotto da schifo e la spossatezza che ora mi pervade è la giusta nemesi di tanta dissolutezza. Incident at Neshabur riempie l’ambiente del negozio di un’anacronistica atmosfera a tinte gialle e rosse, annaffiata di Tequila sunrise e altra roba esotica, davvero fuori posto. Mi affaccio dall’entrata e osservo la strada per un po’, alla ricerca di qualche vecchio da osteria con forcone e fiaccola in mano a caccia dell’ennesimo eretico. Sono erga omnes e distante da ogni possibile redenzione. Non mi resta che la fuga, indomita ed eterna, vile e maledetta.

“Scusa, posso passare?” Mi giro lentamente, corrucciato e perplesso. Una ragazzetta, massimo sedici anni, mi fronteggia, capo leggermente chino e posa sbarazzina, con un CD in mano. E’ di Patty Smith. Ho sempre pensato che solo gli eroinomani ascoltassero Patty Smith ma lei non ha l’aria della tossica, no di certo. Ha una calzamaglia nera sulle gambe secche da adolescente, una cintura con borchie di metallo e una maglia dei Cure di due taglie più grande, tagliata all’altezza del collo. Il viso è proprio carino, acerbo, interrogativo e pretenzioso come quello delle stronzette che affollano i locali rock per giovani rampolli depressi. Ci fissiamo per un po’ e lei abbassa lo sguardo sorridendo. Con una mano si copre la bocca e torna a guardarmi di sottecchi, lasciando ondeggiare le spalle. Oh Cristo! Sono attratto da una bamboccia di dieci anni di meno. Mi faccio da parte e mi schiarisco la gola. Inarco un sopracciglio e torno a controllare la via, timoroso che questo momento di distrazione abbia dato modo ai contadi di scovarmi come un vampiro sorpreso nel suo sepolcro. Rido delle mie paranoie e mentre la ragazza mi passa accanto, noto che sembra incuriosita dalla mia espressione da completo imbecille. La guardo allontanarsi con un’andatura da finta diva dark. Mavvaffanculo! Però mi piace, me la scoperei, eccome. Non l’ho mai fatto con una più giovane e sarei curioso di giostrare la cosa a mio piacimento. Scuoto il capo e mi immergo nella musica di Santana, scartabellando pigramente i CD sugli scaffali. Vediamo. Volevo prendere qualcosa di Satriani, l’ultimo, magari. Tanto, quel mongolo di Giuda, sempre pronto a smerdarmelo ogni volta che apriva il suo inutile orifizio contornato dalla faccia da cazzo più stellare del pianeta, non è più nei dintorni. O almeno spero. Immagino che al momento stia smontando meticolosamente la mia automobile. No, oh no, lui farebbe qualcosa di ben più plateale. Utilizzerebbe un cartello stradale estirpato dal selciato con la sola forza dei suoi muscoli scimmieschi per percuotere la carrozzeria, il tutto di fronte ai passanti inorriditi che non oserebbero avvicinarlo, data l’aura di bestialità che lo circonderebbe. Un lupo mannaro emiliano a Pesaro, un leviatano inarrestabile, che subito dopo correrebbe verso l’edificio più alto della città per compiere l’ultima drammatica, beh, diciamo tragicomica scalata verso una salvezza ormai irraggiungibile. Mi piacerebbe essere là, quando questo avvenimento sconvolgerà la gente del posto, ma ho un appuntamento alle quattro dal dermatologo, a Modena. E sono un fottuto salutista.

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