lunedì 5 novembre 2007

Racconto - Greg Sylvian (esaustiva summa del morboso)


TRACCIA 1 – EDONISMO SPICCIOLO


Il signor Bosom è un gran mangiafica a tempo perso. Lo hanno visto a casa di Lady Godette con un mazzo di rose bianche sotto braccio e una scatola di cioccolatini al benzene stretta nella mano. Nella veranda di Sir Plastico non c’è ombra di igiene e Dr. Linus se ne avvede con gran sconcerto. E’ il party più fallimentare del secolo, è innegabile. Mr Bosom è appollaiato sul davanzale di una finestra, dall’altra parte dello sgargiante giardino di casa Plastico. Tutta la crème è intenta a intrattenersi con aneddoti e storielle di varia foggia e incostante credibilità. “Non c’è più senilità nel portamento di Balestra. Eravamo in tredici a sostenerlo e sono la sola sopravvissuta. Una ragione deve esserci, non trova, Dr. Linus?” L’uomo si desta in quell’istante dall’attenta osservazione degli invitati. “Ehm…certo Jasmine. Lo penso anch’io.” L’anziana donna ride coprendosi pudicamente la dentatura rifatta di fresco. “Voi sapete sempre divertirmi, che uomo eccentrico siete. Intendevo, trovate che ci sia una ragione nel fatto che sono ancora viva?”

“E’ evidente che siete estremamente anonima, mia cara.” Le rivolge un sorriso gelido e lei si scioglie. Preme una mano contro il petto rugoso e saluta distrattamente un uomo obeso e orribile. Intanto Mr. Bosom sta dando fondo alle riserve di Cristal del padrone di casa. Porta i suoi sessant’anni malissimo e la ragione è più che chiara. Karen lo avvicina e lo sfiora con guanti di raso. Sono amanti da un paio d’anni. Lei ha al massimo quarant’anni, portati benone. Sarà la chirurgia plastica, sarà la palestra, ma tutti se la vorrebbero filare. Nell’ultima ora l’atmosfera si è appesantita. Arrivano voci che la festa sia stata spostata fuori dalla villa a causa di una fastidiosa invasione di scarafaggi. Pare che la sola vittima sia stata la figlia di Plastico, una tenera fagottina di carne. “Mio Dio, povera creatura…” Jasmine ha gli occhi lucidi. Estrae un fazzoletto di seta dalla borsetta di Prada e asciuga quel poco di umido che è riuscita a produrre. “La vita continua, mia cara. Piuttosto, sono preoccupato che quelle bestiacce possano raggiungere le auto parcheggiate qua fuori. Sarei molto contrariato se dovessi rincasare con le gomme masticate da quegli abomini.”

“O Signore! Avete ragione, Dr. Linus! Devo avvertire il mio autista.” Tenta di comporre un numero sul satellitare, ma non le riesce. Chiede aiuto a un cameriere e alla fine l’operazione ha successo. Dr. Linus si allontana annoiato. Raggiunge Mr. Bosom. Non c’è più traccia di Karen, ma l’attempato donnaiolo ha le labbra sporche di rossetto. Linus raccatta un tovagliolo dal tavolo del buffet più vicino e glielo porge. “Grazie, ma cosa…?”

“Il rossetto. Sarebbe bene che evitassi queste cose in pubblico, anche se stasera tua moglie non è presente.” Bosom si pulisce con cura e poi getta al volo il pezzo di stoffa sul vassoio di un cameriere di passaggio. “Fatti i tuoi, Linus. Sono vecchio e malmesso e la prostata mi sta lasciando. Me la godo finché posso. Fai lo stesso anche tu. Solo perché sei dieci anni più giovane non significa che durerai per sempre.” Gli strizza l’occhio beffardo e ingolla l’ennesimo bicchiere di champagne. Si dirige barcollando verso una donna che sta riempiendo il suo piattino di tartine di carne di struzzo. Le avvicina la bocca alla nuca e le alita nell’orecchio qualcosa di simile a: “Mia cara, sei dolce come sperma caldo, vorrei mungerti senza pietà. Quella la conservo per i momenti in cui mi tiro le seghe, che sennò rischio di strapparmelo.” Dr. Linus ignora la scena e si porta fino alla veranda. L’interno della casa è silenzioso e le luci sono tutte accese, nonostante non si scorga anima viva all’interno. L’impianto stereo manda Take this bottle dei Faith no more. Varca la soglia senza indugio e avanza seguendo le forme del costoso tappeto persiano che occupa buona parte del pavimento della sala. Una scala in marmo bianco porta a un soppalco su cui si affacciano altre porte e l’entrata dello studio dove lui e Plastico hanno discusso più volte sulle sorti del pianeta dopo la scomparsa di Tom Jones. Sta per uscire per cercare l’autista, quando un lamento seguito da un tonfo attirano la sua attenzione. La traccia finisce in quel momento e dal lettore cd esce improvvisamente The gentle art of making enemies. Il ritmo incalzante aumenta i suoi battiti cardiaci. Sale le scale, gradino dopo gradino e avverte un altro suono, violento e altre grida, in parte coperte dalla musica. Si appropinqua all’entrata dello studio e si affaccia. Sir Plastico è chino, di spalle, sulla scrivania. Sta lavorando su qualcosa con gran lena, a tratti bestemmia a voce alta e batte il pugno sulla radica del mobile. Linus fa per chiamarlo ma in quel momento nota un particolare disgustoso ai piedi dell’amico. Il parquet è cosparso dai corpi di decine di scarafaggi enormi, tutti morti, a parte un paio che ancora agitano le zampe e tentano di raddrizzarsi dalla posizione supina. Nello stesso istante una mano lo afferra a una spalla. Con una flessione che gli procura una fitta alla schiena ruota su sé stesso, ma qualcuno lo immobilizza con eccezionale vigore e un’altra mano gli serra la bocca. Mugugna qualcosa e due occhi azzurri da tedesco lo fissano pazienti. L’uomo, alto, biondo e colossale, gli fa cenno di fare silenzio e lo trascina lontano dallo studio, vicino alle scale. Appena si allontana da lui, nota la tuta sozza e un inconfondibile stemma cucito all’altezza del petto. “Lei è della disinfestazione, giusto?”

“Esatto, piacere, sono Gunther.” L’accento dell’uomo non lascia dubbi sulle sue origini. Gli porge la mano ma Linus non accenna nemmeno a stringerla. “Non mi sembrava il caso di comportarsi così, conosco Sir Plastico molto bene. Avrò modo di lamentarmi di lei, mi creda.” Gunther china leggermente il capo. “Mi spiace, ma stava per disturbare un uomo sofferente. Lo lasci da solo con il suo dolore, la prego.” Linus infila una mano nella tasca interna della giacca e prende un sigaro. Lo accende noncurante e osserva i particolari della casa come fosse la prima volta che vi entra. “Che dolore, scusi? La scomparsa della figlia, forse?”

“Esatto, la prego, venga.” Linus si avvia, poi si ferma. “Cosa sta facendo, adesso? L’ho visto sezionare quegli scarafaggi, non comprendo…” Il disinfestatore scuote la testa e si fa più aggressivo. “Non sono cose che la interessano!”

“Oh no! Invece lo interessano. Gunther, lascialo passare.” Lo sguardo spiritato di Plastico che ora li fissa dalla porta a doppia anta dello studio li coglie entrambi impreparati. Gunther guarda Linus per l’ultima volta, contrariato, e scende le scale con una scrollata di spalle. “Vieni, Linus, amico mio.” Linus si avvicina scettico e intimorito. “La riavrò, capisci? Anzi, la sto già riavendo. Vieni.” Entrano nello studio. L’odore è dolciastro, pessimo. I corpi degli insetti sono esposti a pancia aperta, gettati in ogni angolo da un’isteria non comune a Plastico. Un secchio capeggia sulla scrivania, fiancheggiato da un sacco di plastica colmo di orridi cadaveri d’insetti. L’afrore proviene da lì. “Vieni.” Il padrone di casa lo sollecita di nuovo. “No, non credo di poter…” Sudore ora cola copioso sulla fronte di Linus e deve passare la manica sugli occhi per evitare il bruciore. “…ehm, di poter…” Plastico gli sorride, le rughe gli deformano i lineamenti. Gli occhi emanano una luce distante, quasi assente, i baffi lo rendono stranamente ferino e le mani, le mani sono lorde, unte, le unghie annerite. “Di poter cosa, amico mio?”

“Di poter reggere ciò che mi vuoi mostrare. Mio Dio…tu la stai estraendo da ognuno di loro…Mio Dio, cosa…cosa stai facendo, smettila, per favore…” Plastico gli si accosta e fa per toccarlo. Linus si allontana con un salto. Una morsa gli prende lo stomaco. Chi gli sta di fronte non è Plastico. E’ un uomo molto somigliante, vestito allo stesso modo. Solo ora nota i capelli raccolti in una coda stretta, quasi nascosta, dietro la testa. “Lei chi è? Chi cazzo è lei?”

“Dovresti saperlo, figlio di puttana, dovresti saperlo benissimo. Io sono il timore che la finanza ti faccia visita e scopra i tuoi altarini. Sono l’indifferenza dell’emorroide che ti morde le carni del deretano nelle notti insonni e dolorose in cui maledici i tuoi medici. Sono il carcinoma informe che ti cresce dentro ma che non confessi. Sono la fica di tua moglie che si presta a tutti tranne che a te, sono il sipario che si cala ogni volta che il grottesco ha la meglio su tutto, sono la nera pece che dal proscenio cola abbondante sugli spettatori nel momento del monologo decisivo, sono l’ircocervo, la chimera, sono Greg Sylvian e tienilo bene a mente, perché mi piace perseguitare chi mi teme e tu ora te la stai facendo sotto.” Linus si volta e comincia una folle fuga verso l’ingresso di casa. Urta il passamano e zoppica giù per le scale con il cuore che minaccia di scoppiare. Raggiunge il giardino e drappelli di persone lo osservano esterrefatte. E’ zuppo di sudore, scarmigliato e rosso in volto. Jasmine gli corre vicino e lo sostiene leggermente. “Cosa succede, caro? Hai visto Plastico?” Senza una parola ricomincia a correre e scompare dalla vista di tutti.




TRACCIA 2 – FETICIDIO FETICCIO




“Porgo alla cortese attenzione di sua maestà epilessia una questione estremamente spinosa: le donne sono tutte dissolute?” Il cortigiano Johnny si scaccola e ascolta assorto, passando il dito sozzo tra le trame del suo mantello. “Certo che no, succube…semmai potremmo definirle quintessenza del morboso.” Si alza e porge un calice colmo di letame a sua sorella. Lei trangugia in silenzio e per un lungo momento tutti i presenti nella sala del consiglio osservano imbarazzati. Il deretano supremo, scrivano eccellente, interviene di nuovo. “Sì, mio signore. Tutto ciò è disgustoso. Seguitate, vi prego.” Il cortigiano Johnny si alza dal trono e si avvicina alla gabbia dei fringuelli. Si masturba alacremente e tenta di colpirli con lo sperma. Quelli svolazzano isterici e uno finisce sul fondo, invischiato nel liquido seminale. “Il sesso è una trappola. Un congegno malefico fabbricato per irretire ogni creatura senziente e procurarselo senza coinvolgimenti emozionali è la sola soluzione che rende l’uomo libero. Gelidi e falsi saranno i nostri figli se noi sapremo educarli con sodomia e saggezza.” Alza le braccia al cielo e luce densa, angelica, lo colpisce accecandolo. Preme le mani sul volto strillando e si accascia tra le vesti che lo ricoprono nascondendone la forma. Lo scrivano accorre con le lacrime agli occhi. Solleva il pesante mantello d’ermellino e del cortigiano non è rimasta ombra. I guerrieri, le dame, la folla tutta rumoreggia e diverse bestemmie echeggiano nel vasto ambiente. “Era il solo che io amassi con furore. Necessito una scopata seduta stante.” Il deretano supremo afferra rude la sorella del defunto reggente e la penetra attraverso le vesti. Lei attende tregua per sollevarle, silente. Tredici segugi si affacciano dall’entrata e copulano schizzando un gruppo di giullari falliti. Nessuno ride e la cinepresa compie una panoramica dei volti meno significativi, tutti primissimi piani impietosi che rivelano rughe e imperfezioni. Un’odiosa tarantella giunge dall’esterno e una mandria di ballerini sconnessi fa la sua comparsa tra i fischi dei presenti. Un giovane nudo si fa largo tra la folla e raggiunge il trono. Vi sale sopra e, orinando sull’arazzo reale, grida: “Amo amare l’amaro di questa epicondinite cronica. Amo l’assolo ombroso che mi procuro negli interstizi viziosi di tempo che ritaglio in fellatio recondita e infarcita di melliflua sostanza che cola e cosparge e nutre e uccide quei potenziali similmente creati al sigillo apostolico che mi trattiene dall’essere pura essenza di lanugine adolescente e sciente. A volte piango assieme, a volte privo, eppure la sola junk figure che sollazzerei è la ricrescita di peluria inguinale.” Una ragazza calva lo afferra e lo proietta verso la gabbia dei fringuelli con una mossa di arti marziali. La struttura di metallo viene divelta dal corpo in volo e tutti gli uccelli si esibiscono in un volo coordinato sopra le teste di un drappello di nani sfigurati dall’incendio al bordello del mese scorso. I volatili compongono una vagina pulsante, poi prendono la forma di un tridente. Una finestra va in frantumi con incredibile frastuono e un vecchio con una bottiglia di assenzio in mano e una torcia nell’altra bercia qualcosa d’incomprensibile e sputa un cono infuocato. I fringuelli cadono arrostiti uno dopo l’altro e i furetti sodomiti del grano lottano a colpi di verga per mangiarne le carni. Nel mentre, un uomo con il volto coperto da un saio si rivela e tutti riconoscono Greg Sylvian. Allarga le braccia e lascia che i fedeli gli bacino le mani e i piedi scalzi. Un negro gli ghermisce i lunghi capelli e tenta di sodomizzarlo. Greg lo rende innocuo con l’apposizione delle dita sul suo scuro scroto. Si rivolge alla ragazza calva che ora si è appostata sul trono e lo fronteggia con braccia premute sugli enormi seni. “Oggi ho scoperto una fungiforme escrescenza sul mio ombelico. E’ il segno che devo darmi al funk e smettere di riempire i miei dischi di quella informe congerie di influenze etnico psichedeliche.” La figura femminile della calva si rivela in tutto il suo splendore quando la tunica da lei indossata si dilegua sotto forma d’una donnola bianca. Una russula sporge dal suo addome e l’ombrello pulsa passando dal rosa carne al rosso fulgido. “Sylvian, sapevi della mia venuta e così ti presenti nella speranza, fondamentalmente, di scoparmi, giusto?” L’uomo avanza a passi lenti, seguito dai fedeli, che come sanguisughe rimangono arpionati a ogni sua falange. “Parli bene, o mia potenziale concubina. Vieni e fammi una pompa, qui, davanti a loro, in modo che comprendano la vera essenza del peccato.” Il giovane ignudo si alza dalle macerie rugginose della gabbia e mostra con orgoglio le mille piaghe procurategli dalla flagellazione delle sbarre divelte. Punta un dito smangiato su Greg e sentenzia: “Non c’è peccato più totale e originale dell’astinenza. Non c’è immondezza che del triviale piacere del procurar dolore dia più ebbrezza. Non c’è e pare mai ci sarà maggior sadismo del causar di massa irreversibile isterismo. Pasto più frugale non c’è della marcescente consapevolezza del singolo di essere mediocre e casuale. Vorremmo tutti essere indispensabili e invece matrioske cipollose esposte a disseccare come farfalle al chiodo lo sono più di noi.” Un villico peloso e dai tratti scimmieschi matta il giovane con un fendente alle spalle che non gli lascia scampo. In pochi secondi il suo corpo viene macellato e divorato dai tredici segugi che subito si dileguano scodinzolando. La calva osserva e ride scuotendo il capo e massaggiandosi il clitoride a velocità disumana. Sylvian coglie l’attimo e la inchioda con mani d’acciaio ai braccioli dell’enorme seggio. A turno lui e i fedeli la trafiggono al basso ventre e lei si contorce come un serpente. Morde e colpisce a caso e apre una ferita nel braccio di Greg, che però non desiste dal penetrarla. Un’onda di calore investe l’ammasso di corpi e molti si gettano a terra in preda alle fiamme. Il capo spirituale spegne il fuoco che gli arde i capelli nella sputacchiera sotto il trono e riemerge coperto di saliva, muco e catarro. I suoi lacchè si fanno da parte spaventati e si rannicchiano stringendosi fra di loro. Tutti fissano esterrefatti il vecchio con l’assenzio che fronteggia Sylvian. Ha la bocca colma di liquido infiammabile e avanza con le gambe allargate, pronto a scattare a un minimo movimento di Greg. Quello si esibisce in un sorriso malevolo e spalanca ancora le braccia piene di succhiotti. “Vecchio, non essermi nemico e scopati questa fresca giovane dalle labbra turgide.” Il vecchio deglutisce l’assenzio. “Quella è mia madre, maiale!” Il suo colorito cianotico quasi riflette la fiaccola che brandisce con rabbia. “Comprendo, o Edipo feticcio, comprendo. Ascolta, ti propongo un affare da non rifiutare. La mia vita per quella di tua…” Osserva la splendida fanciulla alzando un sopracciglio. “…ehm, tua madre con la mia. Questi pezzenti puoi anche divertirti a farli a pezzi. Anzi, ti pregherei di farlo. Da quando hanno imparato a leggere mi sento in pericolo, dato che gli scritti che conservo nelle mie stanze sono di vitale importanza per la perpetuazione del culto e che uno dei suoi punti di forza è l’ignoranza dei fedeli.” Lancia un’occhiata severa ai villici tremanti intorno a loro. Il vecchio ingurgita altro liquido etilico e appronta la fiamma davanti alla bocca. Sylvian corre in ogni direzione e quando cerca rifugio tra i fedeli questi lo respingono come fosse un lebbroso. L’attempato guerriero continua a puntarlo e all’ennesima spinta di uno dei suoi, Greg si trova scoperto e in mezzo alla stanza una nube d’alito incandescente lo investe. La sua figura prende fuoco dalla cintola in su e le urla dell’artista si fondono agli applausi della folla. Alcuni aprono pacchetti di Fonzies, altri cucinano marmotte scuoiate, ma i più spariscono in fila indiana lamentandosi per il prezzo troppo alto del biglietto. La ragazza cinge il vecchio e rimangono abbracciati piangendo per molto tempo. Senza indugiare oltre la scena cambia e con essa i giochi di luce.




TRACCIA 3 – INSETTI


Siamo in pieno inverno e colonnette di ghiaccio adornano gli stipiti delle finestre di una modesta casa di campagna. Un bambino fissa la brughiera, malinconico. Ha sentito che quest’anno non ci sarà né primavera né estate. Glielo ha detto suo padre durante l’ultima uccisione propiziatoria del capro espiatorio. “Le interiora parlano chiaro” gli aveva detto. “Possiamo scordarci la bella stagione, per quest’anno. Saremo costretti a scaldarci dormendo nelle pance delle vacche appena scannate. E quando tutto questo sarà finito ci ritroveremo pieni di dolori reumatici dovuti all’umido di quelle budella.” E lui si era rifugiato nel granaio, alla ricerca di quei topini appena nati che il gatto aveva tentato di stanare senza successo. Ora è nella sala da pranzo e sua madre sta preparando lo stufato. Indossa la giacca e sistema i gusci di scarafaggio sotto i piedi, per non affondare nella neve. Si reca nel granaio e mentre attraversa l’aia intravede le galline, raggruppate come acini d’uva, sulle mensole del pollaio. Entra nel capannone ed estrae il fucile che ha nascosto mesi addietro nel vano tra un’asse smossa e la parete esterna. Accende le torce per illuminare l’ambiente e subito un’ombra si staglia enorme sul soffitto. Il bambino trasale e preme il grilletto. La gragnola di pallini si pianta in un palo, tra le balle di fieno. Percepisce un veloce raspare lungo le pareti. Una forma nera compare per un attimo dietro una mangiatoia. Spara di nuovo e un tonfo sordo segna la fine del trambusto. Si avvicina all’origine del rumore e trova il corpo di un enorme scarafaggio, lungo due metri. I proiettili lo hanno quasi divelto. Afferra un forcone e comincia a separare il carapace. “Ben fatto, bambiiiino…” Si gira di scatto, membra tese e respiro affannoso. Spazia con lo sguardo, ma non individua altra presenza oltre la sua. Sistema il fucile sulla spalla, pronto a far fuoco e avanza fra i trogoli disposti in file parallele. “Hai pauuura?” La voce è sottile, quasi assente e si perde in un riverbero indefinito che non permette di comprenderne la provenienza. “Lo sai chi era quello? Sì, sì. Era tuo…”

“Zitto! Zitto!” La deflagrazione dell’arma porta di nuovo il silenzio. Il bambino è rosso in volto per lo sforzo di gridare così forte e tiene la canna rivolta verso l’alto, ancora fumante. Avanza tremando, punta il fucile in ogni direzione e avverte ondate di adrenalina che gli fanno pulsare il cervello. “Inutile cercarmi. Semmai, mi mostrerò io. Io sono il supremo, bambiiiino. E ti voglio, oooora. Rinascere è venire una seconda volta, è la negazione della divina eiaculatio precoooooox che ci ha messi tutti al mondo e io voglio farti rinascere. Sarà indoloooooore…”

“Cosa vuoi? Perché me? Io faccio solo quello che mi dice mio padre!” La voce si fa più vicina, sembra a pochi passi da lui. “Tesooooro…tu hai appena ucciso tuo padre.” Il bambino scatta di lato e spara verso un mucchio di fieno. Ora sente chiaramente un qualcosa di fulmineo al galoppo lungo le pareti e in avvicinamento. Apre il fucile e cerca a tentoni le cartucce, non le trova, si china e vede che gli sono scivolate dalle tasche, allunga la mano per afferrarle, le infila alla disperata, schiuma alla bocca per il panico, chiude l’arma, occhio vitreo, ogni respiro un singulto di terrore, alza lo sguardo e vede. Una zampa lo arpiona e gli stacca le mani di netto. Il sangue zampilla a fontanella. Le urla si mischiano al dolore, quasi chirurgico, nevralgico. La faccia distorta in un ghigno di Greg Sylvian lo sovrasta. Ride sguaiata e non cessa di ondeggiargli davanti, sostenuta da un corpo vermiforme di nemertini. Si muove più vicino trascinandosi dietro un cilindro bianco lungo alcuni metri, ricoperto di pustole nere. “Ti ho preeeeso, ti ho preeeeso, ti ho preeeeeeeso, ti ho…” La nenia martella costante, il silenzio sembra non giungere mai. Invece, come sempre, arriva.


TRACCIA 4 – NEFROSI DELLA MENZOGNA



Un uomo in completo elegante è seduto davanti a un tavolo con cassetti, vecchio e scrostato. Tre individui gli stanno di fronte. Non ne distingue lineamenti e vestiario, dato che la forte luce di una lampada è puntata su di lui, ma si è fatto un’idea abbastanza chiara di loro. Sono probabilmente agenti in borghese. La stanza in cui si trovano è lorda e maleodorante. Ha notato che incisivi, unghie e fiotti di sangue cospargono e maculano la parete alla sua destra, un sinistro monito accompagnato alle catene rugginose appese a chiodi di fattura industriale russa. Il suo labbro è spaccato, come due degli incisivi superiori. Ha un occhio semichiuso e tumefatto e cravatta e camicia macchiate di rosso. Ha un aspetto orribile, già lo immagina. Li ha pregati subito di lasciare perdere il volto, ma non l’hanno ascoltato. L’agente 1 appoggia la mano al tavolo e si sporge verso di lui. “Signor Presley, si decida a parlare e noi saremo ben contenti di lasciarla alle sue preziose mansioni sociali.” L’agente 2 fa strani cenni con la testa. “Verissimo, verissimo. Lei ci dia quel che cerchiamo e noi la premieremo con immediata liberazione e totale scagionamento.” L’agente 3 gira attorno alla scrivania e gli si accosta portando la faccia alla sua altezza. Ha zigomi sporgenti e la pelle delle guance sembra sia stata sottoposta a innumerevoli lifting. “Abbiamo letto tutto su di lei, siamo al corrente di ogni particolare.” L’uomo abbassa lo sguardo. “Tutto? Per esempio?”

“Per esempio della sua scappatella notturna al Leibniz con quel sordido sodomita arabo che vende filmini snuff.”

“Mio Dio…ma che state dicendo? Non conosco gente del genere!” L’agente 3 lo schiaffeggia forte abbastanza da farlo quasi cadere dalla sedia. “Animale! Inutile fingere. Abbiamo le foto, le testimonianze e quanto ci basta per incastrarti e immerdarti fino e sopra al collo.” L’agente 2 getta sprezzante un fascicolo sul tavolo. L’uomo lo prende, titubante, fissando l’agente 3 con timore reverenziale. Scorre le pagine e vede che le prime fotografie mostrano ville lussuose e gente facoltosa a bordo piscina occupata in festini orgiastici. Non c’è ombra della sua persona. Le immagini successive sono sfuocate e di pessima qualità. Si vedono uomini, evidentemente fotografati da grande distanza, che si scambiano valigie. Il luogo dello scambio, parrebbe un aeroporto, è sempre lo stesso, ma cambiano i vestiti dei soggetti e la luce. La sua presenza, ancora una volta, latita. L’agente 3 gli strappa di mano la cartella e la porge all’agente 2, poi afferra l’uomo per il bavero della giacca e lo scuote. “Allora? Allora! Non ti dice niente tutto questo?” Lui è sull’orlo delle lacrime. “Ma io non ci sono! Non vedete?” I tre agenti ridacchiano e si guardano complici. Il terzo lo percuote di nuovo. “Ci prendi per scemi? Eh? Avanti, dillo!”

“No, no! Io…non vi prendo per sc…”

“Taci! Guarda!” L’agente 2 fa strisciare sul tavolo un’altra foto e la ferma sotto il suo naso. Ritrae un chirurgo con camice e strumenti. Sembra si sia appena tolto la mascherina e sorride soddisfatto, come se avesse concluso un’operazione con successo. “Lo riconosci? Beh, a dire il vero non dovremmo nemmeno chiedertelo, ma oggi siamo più pazienti del solito.” L’uomo osserva inebetito e scuote il capo con le lacrime che ora gli bagnano il colletto. Un altro colpo lo raggiunge, stavolta dietro la testa. Il terzo lo afferra per i capelli, subito gli tira indietro il capo e gli sussurra: “Avanti, Prisley, rendiamo questo lavoro un po’ più semplice. Parla, ammetti che questo è il chirurgo che ti ha rifatto la faccia.” Il secondo interviene. “Berna 1997. Ti dice nulla?” L’uomo continua a ondeggiare il capo, stordito e si prodiga in continui lamenti. “Io…io non mi chiamo Prisley. Mi chiamo Kudok. E non ho quarant’anni, come dite voi, ne ho solo trentuno. E sono americano, non bielorusso, Cristo! Volete capirlo?” L’agente 1 si alza. La luce impedisce ancora di carpirne l’identità. “Ascoltate, stiamo perdendo tempo. Non ci resta che torturarlo e vedere fin dove regge. Anche non fosse lui, dovremmo comunque disfarcene, ormai ci ha visti.” L’agente 3 si gira verso di lui. “Hai ragione, attacchiamolo a quel cazzo di muro e vediamo se dopo un paio di estrazioni dentarie si convince.” L’uomo valuta per un secondo e agisce con inaspettata animosità. Infila la mano con precisione micidiale sotto la giacca del terzo. Ha notato poco prima, mentre aggirava la scrivania, lo scintillio della pistola sotto il vestito. La estrae con disinvoltura e fa fuoco centrando l’agente 3 all’addome. Quello si accascia e strilla a ripetizione. L’uomo punta l’arma sugli altri due. Spara a casaccio. La luce si spegne in un’esplosione, un corpo cade. Prisley corre fino alla porta, alla cieca, il buio lo circonda come un sudario. La riesce ad aprire, vede uno spiraglio di luce che illumina l’agente 1. E’ fermo, di fronte a lui. E’ Greg Sylvian, che con occhio invasato lo trafigge da parte a parte con uno sperone. Centra un rene. L’uomo perde ogni contatto con la realtà. Cade carponi, annaspa, non riesce nemmeno a gridare. Immediato torpore lo investe. Preme li grilletto, non sa quante volte. I proiettili rimbalzano non sa dove. La sua ultima speranza è di essersi portato dietro quel figlio di puttana.


TRACCIA 5 – COLLISIONI mATEMATICHE


La ragazza calva è sdraiata su un logoro giaciglio adornato da foglie d’alloro secche. Le voci di alcuni venditori ambulanti l’hanno tenuta sveglia tutto il tempo. Lascia vagare lo sguardo lungo le pareti della capanna di fango dove si trova. La superficie è irregolare dovunque, anche nel pavimento di terra battuta dove cresce un ciuffo d’erba ribelle che a Baba non è riuscito di estirpare. Indossa un saio nuovo, donatole dal suo ospite. Si alza e avverte un forte giramento che la costringe a sedersi. Attende qualche minuto e si massaggia i piedi e le spalle. Le stanno ricrescendo i capelli, o così le pare. Sente leggere punte sporgere dal cranio, ma sembrano ferme alla stessa lunghezza da un’eternità. Si decide ed esce dal rifugio guardinga e disorientata. Si trova su una strada sterrata assediata dalle innumerevoli bancarelle di un mercatino mediorientale. I compratori si ammassano presso i banchi e strillano rivolti ai mercanti, che a loro volta contrattano con incrollabile pazienza. Un tumulo di terra e feci svetta oltre le case che contornano la via. E’ enorme, alto decine di metri e circondato da nugoli di mosche in preda alla loro morbosa fregola da sterco. Baba le ha detto che sarebbe andato al tempio e non osa pensare che sarà quella la meta della sua ricognizione. Si ferma presso un venditore di armi e acquista una lancia con i pochi soldi rimastile. E’ di fattura primitiva ma assai funzionale e ben affilata. Si fa largo tra la gente e alcuni storpi allungano le mani su di lei nel tentativo di strapparle la veste. Sembrano privi di pelle, forse vittime di qualche tortura crudele. Li evita rapida e si concede un attimo di tregua infilandosi in un pertugio di viottolo, largo giusto per una persona. Una donna si sporge da una finestra sopra di lei e stende su un filo la pelle di un gatto. La vede e le sorride. Lei scappa e finisce invischiata di nuovo nel marasma. Altre mani la toccano, la cingono, la pizzicano e non riesce a individuare gli untori che la perseguitano occultati nella folla. Finisce casualmente in una piazzetta e camminando più libera arriva di fronte a un grosso emporio. Un imbonitore obeso e sudato vende schiavi a basso prezzo. Sono esposti in fila, nudi e colti da fremiti preoccupanti. Alcuni sono dei bambini e la sola donna è un’anziana smagrita che, impietosamente esposta, tenta di coprire le parti intime. I compratori tastano la merce con la rudezza che si riserverebbe a bestie da soma. Il mercante non smette di parlare un momento. “Comprate, sudici figli di vacca, comprate la feccia servente del buco del culo! Fatevi leccapiedi a pagamento, rendetevi lacchè senza rischio di tradimento! Datevi importanza e prestigio, mandria di bifolchi senza dignità!” E ogni potenziale acquirente si genuflette ai piedi del grasso imbonitore pregando di essere offeso. Alcuni si rotolano nella sabbia sozza della piazza chiedendo umiliazioni fisiche, ma due uomini dalla pelle scura che fiancheggiano l’obeso li allontanano di peso. La ragazza nota con sconcerto che chi compra viene sostituito allo schiavo e il servo venduto viene fustigato da uno dei due villici neri con violenza inaudita e sodomizzato a sangue dall’altro. Il trattamento eccita la folla al punto da spingere molti a violentare gli astanti. La calva si avvede troppo tardi del pestaggio rituale che si sta profilando e due mani la afferrano da dietro. Avverte un glande colossale entrarle nell’ano e grida colta da contrazioni dolorosissime. Ruota la lancia nella mano, rivolgendo la punta all’indietro e sferra un colpo preciso. Liquido caldo le investe la schiena, sente un urlo strozzato e un corpo pesante la schiaccia a terra crollandole addosso. Striscia nella sabbia, che le riempie bocca, naso e orecchie. Tossisce, annaspa, qualcuno le calpesta una mano ma resiste al patimento. Si allontana carponi dalla ressa e cerca riparo sotto la tenda di una bottega. Il turbinio della gente che si assale, si schiaccia e si avventa sull’emporio ricorda un termitaio dato alle fiamme. “Incredibile, vero?” La ragazza sussulta e istintivamente porta la lancia davanti a sé, ma solo ora si rende conto di averla abbandonata sul corpo del suo aggressore. Un uomo sulla trentina, con una grossa cicatrice sul labbro e con due incisivi rotti la osserva e le sorride. E’ vestito molto elegante, è di bell’aspetto e sembra avulso dal contesto che li circonda. “Chi sei?”

“Sono Prisley. E’ un piacere vederti. Baba mi aveva detto che saresti venuta in questa zona, ma mi sono ricordato solo all’ultimo che ogni martedì in questa piazza c’è la vendita di schiavitù e sono venuto a cercarti.” La ragazza lo perlustra con gli occhi e si trova attratta da quell’individuo. Si ricompone anche se sa di essere coperta di polvere e sangue. “Io sono Auge.”

“So chi sei. Mi piacerebbe parlare ancora per conoscerci, ma è meglio che ci muoviamo. Seguimi e tienimi la mano, non mollarmi mai.” Le porge la mano e lei la prende senza fiatare. “E soprattutto fidati di me, intesi?” Lei fa cenno di avere compreso, con sguardo quasi infantile e si avviano nel caos che li imprigiona a margine della piazza. Avanzano molto lentamente e l’uomo la porta lontano da un gruppo di pezzenti che si contendono una donna sfregiata tirandola, ognuno per un arto. Un capannello di beduini coperti da vesti scure li fermano per chiedere l’acquisto della donna calva e Prisley li ignora. Uno di loro gli punta una lama in faccia, ma lui prosegue imperterrito. Auge gli si fa più vicina. “Come puoi essere così avventato? Lo hai ignorato come fosse stato un innocuo bambino.” L’uomo le lancia un’occhiata di sbieco. “Gli ho infilato uno specchio sotto il mantello. Qui sono una rarità, non credo ci disturberanno più.” La ragazza si ammutolisce e pensa a quanto tempo è passato dall’ultima volta che ha osservato la sua immagine riflessa. Si lascia trascinare lungo le vie, oltre la piazza. Il marasma va diradandosi e le bancarelle sono sempre più sporadiche. Il tumulo è ora più vicino e riesce a scorgerne particolari prima celati dalla distanza. La superficie dell’enorme cono che svetta in mezzo alla medina è costellata di feritoie strettissime e da alcune di esse salgono densi fumi colorati, forse il risultato della combustione di incensi esotici. Nebbie d’insetti creano arabeschi nell’aria e si raggruppano a folate successive, creando forme misteriose, lettere, rune e caratteri in cirillico che stordiscono le membra di Auge, persa e ipnotizzata. La sua testa ciondola e gli occhi sono fissi su una figura rinchiusa in una gabbia a dieci metri d’altezza, appesa a una trave fissata fuori da una delle aperture. Sembra un uomo magrissimo e dalle gambe eccezionalmente filiformi. I soli polpacci sporgono, ma bastano per superare la lunghezza di un arto normale. La sagoma del capo è nascosta dall’ombra che copre il fondo della cella. Ormai sono a ridosso del torrione. Per duecento metri di raggio attorno alla costruzione il terreno è privo di edifici e capanne. Il vorticoso viavai di gente che si incrocia sulle vie che convergono nel tumulo dalle quattro direzioni cardinali ricorda il costante pellegrinaggio verso un luogo di culto. Auge avvista famiglie con carri appresso con stipata sopra paccottiglia d’ogni tipo e sistemati a mo’ di casa ambulante, vecchi monaci imbevuti nel vetriolo, tanto sfigurati da sembrare manichini di gomma, donne adultere prive di seni che espongono cicatrici immonde con orgoglio e tredici segugi colti da fregola inarrestabile che si strusciano sui passanti. E’ una visione tanto singolare, quanto ebbra e la ragazza si sente a tratti raggelare, a tratti ribollire l’anima per eccesso d’input emozionale. L’uomo la trascina, la sua mano un informe fungo esagonale privo di ombrello e secernente melassa collosa. Una delle entrate li fagocita ingorda e ondate di manichini privi di occhi, naso e bocca li annusano, li squadrano e li leccano ruffiani. Sono identici alla figura che ciondolava appoggiata alle sbarre della sua cella a mezz’aria. Sono lisci come glandi eretti e lo sfregamento delle loro informi teste produce rumore di plastica in collisione e afrore di petrolio grezzo. Sono una moltitudine e s’impossessano dei pellegrini appena entrati con l’arroganza di un’ape regina su fuchi omosessuali e indifesi. “Dove siamo, Prisley, dove…?” Lui la interrompe per sottrarla all’abbraccio di un manichino enorme, alto cinque metri e munito di braccia colossali. La strattona e la trascina lontano, scavando nel tumulto che si rimescola in volute imprevedibili. La fissa folle di desiderio. “Ci sono tredici ragioni per cui dovrei amarti, ma nessuna basta a sacrificarmi in settantuno parti di fecola indefessa come sedici e più statue di cenere che cadono al sole e si disseccano oltre il patio, in quella dimora che non ricordi ma che è ben scolpita nella mia mente.” Sangue a fiotti cola dalle sue narici, gli lorda le guance rase di fresco, la camicia griffata e la cravatta sgualcita, la giacca impolverata dal deserto e il setto nasale deviato in quella partita a hockey sul prato del giardino pensile di villa Guascone e un dito oblungo, privo di unghia e impronta digitale, lo stronca da dietro e così inaspettatamente che Auge strilla forte abbastanza da spolparsi i polmoni con vernice di vetroresina.


Greg allontana la bocca dal microfono. Lancia uno sguardo ansioso verso l’asettica freddezza della parete insonorizzata. Una voce lo raggiunge, come previsto. “Rifacciamo quest’ultimo bridge, era una merda, Greg. Spero tu sia d’accordo.” Sylvian sistema le cuffie che ha sulla testa e appronta le labbra al canto.

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