lunedì 5 novembre 2007

Racconto - Tantra Bar


Non c’era serata che passasse senza una sortita, più o meno veloce, al Tantra bar. Lo sapeva bene Digo, che sorseggiava il suo drink seduto al bancone con l’aria di chi venderebbe un rene per un’ora di divertimento. E Maria si trastullava, lì di fianco, con l’orlo smangiato della minigonna. L’avevano pescata in qualche fiera del dissidente medio, persa in un lago di rimpianti e anni sprecati nei letti sbagliati, colta dai dolori dell’ennesima dismenorrea post-aborto. Intanto il Teschio arricciava le pagine di un vecchio libro di Irvine Welsh, la sua Bibbia, seduto pigramente in un anonimo tavolo sotto la gigantografia di Armstrong attaccato alla tromba e gonfio come una zampogna. E da fuori giungevano gli schiamazzi dei ragazzetti sui motorini truccati, con le morose cariche di trucco appollaiate dietro. Il barista serviva caffè ai signori di passaggio dalla città. Si presentavano in vestiti griffati, di fretta, quasi non volessero contaminarsi di provincialismo. Uno su tutti ammutoliva la platea degli avventori di paese. Sembrava un incrocio tra il Charles Bronson dei tempi migliori e Gianni Morandi. Sorriso di porcellana e smerigliato come roccia viva, trangugiava i suoi cappuccini con mano lesta e si accomiatava senza salutare. Ogni tanto si faceva vivo Beppe, che avanzava verso il jukebox con gli stivali a punta ai piedi e metteva sempre la stessa canzone, New kid in town degli Eagles. Guidava un camion con traino e faceva la spola tra l’est e Milano. Era stato sposato con una slava di nome Zdenka e aveva figliato senza pensare che i marmocchi non si nutrono in automatico, manco si fosse trattata di una gallatura nel pollaio. Osvaldo faceva notare sempre che il miglior cowboy della bassa non era un agnellino ma la litote non interessava nessuno. Nessuno, dopotutto, si filava Osvaldo, pelato e inetto, tante doti quanti capelli, figlio di un sarchiapone formato cisterna e di una melassa di donna senza più ovaie per rimediare. Poi c’era Christian che, impalato e perennemente impegnato in sfide a freccette, non parlava granché. Le sue parole erano i rintocchi sordi dei dardi che si conficcavano nel legno e che sancivano le sue vittorie. Non mancava, inoltre, la membranza di Riccardo, il pulcino calciatore, cresciuto e trasferitosi a Bologna con una schiera di cuori infranti alle spalle. Non era raro che Alcide lo ricordasse con astio, grattando lo sporco da officina che gli anneriva quotidianamente le mani. E non sorprendeva che al Tantra bar vi fosse stata anche una rissa che aveva coinvolto più villici presi a preliare come gladiatori in corsa per la vita. Il flipper aveva strillato il suo ultimo tilt quando Antonio aveva impattato la sua tutt’altro che modesta mole sulla faccia di Axl Roses e compagni. Orazio, il fabbro di corte, ne aveva sancito la morte tra i sospiri dei bambini e in particolare di Santu il sardonico, che sfotteva chi non superava i centomila, alto uno e trenta, dieci anni di campionati a palla avvelenata e mai una sconfitta a flipper. E il venerdì sera facevano presenza certe femmine, strette nei vestiti semiaderenti, sigaretta in mano e patente fresca fresca nel portafogli. Le capeggiava Debora, detta il troione, ma che la figa non la dava a nessuno. La si pescava, piuttosto, a fottere le patatine al formaggio e a stiracchiare il Big Bubble con le lunghe e oscene unghie color viola. La sua dama di compagnia, Berta la scarniccia, faceva occhi dolci a Luca, un montone di ragazzo, peloso e ruvido di pelle e carattere, sempre accucciato sul phantom aerografato a mo’ di bolide americano. Poi c’era ancora chi portava a galla, nei propri discorsi, la nefasta ricorrenza della sera del trentun agosto in cui un certo Ugo si era sparato nel capannone dietro casa. La sua ditta di pezzi di ricambio per auto era fallita mesi addietro e da allora non un soldo era più entrato nelle tasche del poveretto. La moglie Marina si era infilata un vestito nero ed era andata al Tantra per chiedere a Fausto, suo prozio e unico parente rimastole vicino dopo un matrimonio avversato da tutti gli altri, un prestito per allestire un degno funerale al marito. In quell’occasione il bar si era riempito di sentimento e il paese tutto si era stretto attorno al dolore della donna, compreso Landi il furfante, uomo dissoluto e dedito al furto nelle ville in collina, una greppia per bocca e un trogolo per naso, che si prodigò in un pianto da strillone ammirevole. Il suo gregario Francesco lo aveva consolato infilandogli in tasca la refurtiva appena sottratta alla vedova Nardini, colta da irrefrenabili sussulti di dolore empatico. Dopotutto il prete non si faceva mai vedere al bar, quasi una gotta gli avesse colto alluce e falangette e gli impedisse di deambulare oltre dieci metri dalla chiesa. La gotha di paese era poi ben lungi dall’entrare nel merito delle attività del locale, presa a sfilare in pompa magna con le auto lucide eiaculate dai fastosi cancelli delle regge fuori paese. Il solo dell’ambiente che degnava il Tantra della sua presenza era Robby il deficiente, figlio di notari di grande fama ed espressivo come una stalattite. Sfilava con scarpe Gucci e completi Brook Brothers, ma nessuno se ne avvedeva, dato che al Tantra il fashion era cosa ignota. Gianfranco rideva come un pazzo quando Robby si affacciava dall’entrata con quel suo grugno amorfo ed era costretto a correre nei cessi per sciacquarsi la faccia paonazza. Non era uomo uso a delicatezze, ma amava sua figlia Gladis più del carretto da venditore ambulante che si trascinava dietro come un feretro centenario. Gladis era un’infingarda avvocatessa, un topo di tribunale con indosso occhiali datati che rendevano ancor più arcigno il suo volto affilato. Ma l’arcidiavolo di paese era Pino il segaligno, un malefico furetto che strisciava nelle zone d’ombra, di casa in casa, e sgattaiolava nel Tantra bar come una zoccola di fogna nel più rinomato dei ristoranti. Si appropinquava al bancone e chiedeva un Montenegro e un pacchetto di Nazionali. La sua dieta era letale e gli conferiva un’alitosi cronica che avrebbe infastidito la troia pompinara più scafata del vicino Autogrill. Quando uno straniero entrava nel Tantra, lui lo avvicinava viscido e malevolo, riempiendolo di elogi e sfottendolo alle spalle. La gente rideva parecchio di Pino, ma mai con Pino. Filippo lo prendeva a pedate nel portichetto antistante il locale e gli diceva che sua madre era un silos di letame. Faceva il ganzo con le pulzelle più giovani ma poi si copriva la stempiatura con ciocche di capelli nere e unte che si guardava bene dal lavare per mantenerne la perfetta aderenza al cranio.

Poi, beh, c’ero io. Un mangia banane a tradimento che un giorno affogò in un bicchiere di Martini di troppo e che fu ritrovato nel fosso davanti alla casa di Mino il macellaio. Qualcuno si era preso la briga di legarmi al sedile del guidatore e di piazzare un mattone sull’acceleratore e quel qualcuno era mia suocera, una cagna procellosa con uno spiccato amore per l’azione. Al Tantra Bar fu accolta da vestali festanti e tutti gli animi infetti di quel tugurio pestilenziale levarono i calici per un ennesimo brindisi, portando le voci gracchianti delle zingare indovine fino alle stelle, i pianti dei bambini cenciosi fino alla Via Lattea e gli squassanti peti dei braccianti oltre i confini dell’universo.

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